Questo sito utilizza i Cookie ma rispettiamo la tua privacy. Puoi accettarli, rifiutarli o esprimere le tue preferenze di seguito. Le tue impostazioni saranno salvate per un anno. I Cookie statistici sono già attivi perché i relativi dati sono configurati in maniera anonima e aggregata (nelle preferenze trovi maggiori dettagli). Se vuoi, leggi la nostra
Informativa estesa
Se anche una portuale livornese rimane incartata nel datasheet, il content design ha fallito.
Non perché Vanessa sia “poco digitale”, ma perché i siti spesso parlano la lingua sbagliata, quella dei designer, dei brand internazionali, dei manuali di UX.
Lingua che suona moderna, certo. Ma tra bean to cup e learn more, l’unica cosa che resta è la confusione.
Inutile cercare di far colpo su Google o su LinkedIn: il cliente è il nostro vero datore di lavoro.
Content Design e traduzioni travestite
Chiamarlo content design è fargli un favore: spesso è un copia e incolla travestito bene.
Pagine nate in inglese, pensate per un pubblico diverso, tradotte in fretta per sembrare internazionali.
Ma un testo non diventa moderno solo perché dice discover invece di “guarda”.
Soprattutto se chi legge non sta cercando una “esperienza”, ma un’informazione chiara, tipo se la macchinetta fa due caffè o dieci.
Il risultato è una lingua che suona familiare al marketing, ma estranea a chi la legge.
Si nota sempre più uno scollamento fra chi progetta e chi è destinatario della progettazione.
Il primo passa ore a rifinire testo e aspetto, diventandone un esperto, e dimentica l’effetto che farà al secondo quando, per la prima volta, si troverà davanti al risultato finale.
Le parole chiave arrivano dritte dai manuali d’oltreoceano: learn more, smart solution, your best experience.
In italiano diventano “Scopri di più”, “Soluzione intelligente”, “La tua migliore esperienza”. Ma non dicono di cosa si parla, né perché dovresti fidarti. L’effetto è quello di una traduzione senza destinatario.
Non parla né l’inglese del marketing, né l’italiano di chi compra: parla una lingua di mezzo, perfetta per nessuno.
In inglese learn more funziona perché introduce un approfondimento reale, spesso con un verbo d’azione concreto accanto (compare plans, see details). In italiano, “Scopri di più” è un tappabuchi: non promette nulla, non guida, non informa.
Invece di tradurre, dovremmo riprogettare un sito web, chiedendoci cosa vuole davvero sapere l’utente in quel punto del percorso: vuole confrontare modelli? Capire i costi? Scaricare le specifiche?
Da lì nasce il testo giusto, quello che fa clic non per estetica, ma per chiarezza.
Copywriting per siti web: bisogni diversi in base al Paese
Il content design, come il caffè, cambia sapore da Paese a Paese.
Negli Stati Uniti funziona un linguaggio che ispira: be the change, discover your next experience.
Non perché siamo diffidenti per natura (sì che lo siamo), ma perché abbiamo imparato a fidarci solo di chi ci spiega come e perché.
Chi naviga un sito italiano non vuole “un’esperienza immersiva”: vuole capire quanto costa, come funziona e a chi rivolgersi se qualcosa non va.
Vuole vedere un volto, una garanzia, una prova concreta che dietro al brand c’è qualcuno in carne e ossa.
Per questo certe parole-contenitore come solution, innovation o smart non bastano: suonano bene, ma non significano nulla.
Dire “soluzione intelligente per l’ufficio” non è content design: è arredamento testuale.
Dire invece “una macchina da caffè che prepara due tazze in 30 secondi” è servizio, è chiarezza, è rispetto del tempo dell’utente.
Un buon compromesso, sarebbe trovare spazio ad entrambe le “anime”.
Nel nostro mercato, la fiducia è la vera UX. Ogni frase che non spiega, rallenta. Ogni inglesismo non necessario, allontana.
E ogni “Scopri di più” messo al posto di “Guarda i modelli” è un’occasione persa per costruire un rapporto.
Progettare un sito per chi legge
La scrittura per il web non deve essere “carina”, deve essere utile.
Non serve solamente un lessico emozionale o premium (scusate), serve una pagina che ti capisca al volo.
Un buon content design parte sempre da una domanda semplice: cosa vuole sapere davvero la persona che è arrivata qui?
Non “che valori ha il brand”, ma che cosa deve fare ora. Chi cerca una macchinetta da caffè vuole sapere:
E il linguaggio dovrebbe seguirlo passo passo, non precederlo con slogan. Meglio un pulsante che dice “Confronta i modelli” che uno Scopri di più senza destinazione.
Meglio un testo che scrive “Ti aiutiamo a scegliere la macchina giusta per il tuo ufficio” piuttosto che un We care about your coffee journey.
Il content design non è traduzione, è progettazione.
Significa testare parole come si testano pulsanti, capire se il lettore si orienta, se trova quello che cerca, se si fida.
Non per farlo “cliccare”, ma per farlo capire. Perché un testo che si capisce è già, di per sé, un atto di fiducia.
Il caffè di Vanessa: quando il prodotto funziona più della comunicazione
Alla fine Vanessa ha rinunciato al sito e si è fatta un caffè con la moka.
Tre minuti netti, nessun datasheet, nessun learn more.
Una sola interazione, quella con la manopola del gas, e un risultato certo: aroma, calore e soddisfazione.
È ironico, ma anche un po’ tragico: il suo caffè funziona meglio del sito che lo vendeva.
Perché la moka non è solo familiare: è trasparente. Non ti chiede fiducia, se la guadagna facendo il suo mestiere.
Perché un sito ben progettato è come un buon caffè: semplice, forte e capace di svegliare anche chi non voleva imparare niente.
Leggi anche:
Articolo di Luca Lucchesi – www.lucalucchesi.it