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Content design e Micro-copy: quando “scopri di più” non basta

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È sabato pomeriggio e Vanessa, seduta al tavolo di cucina, fa un tiro dalla sigaretta e apre un altro sito.
Samantha entra, prende dal frigo la borraccia.
“Ma dé, una bottiglia d’acqua normale, no, eh?”
“Si boomer, certo,” dice con un sorrisetto.
“Dé nini, intanto io non sono una boomer, perché c’ho quarantadue anni. E poi a me te mi parli ammodino, hai capito?”
“Fai paura ai tuoi colleghi portuali, mica a me.”
“Dé, se la ri’orda ancora quel coglione di Michele la ginocchiata che n’ho dato,” ride Vanessa.
Samantha la abbraccia da dietro.
“Piuttosto dammi una mano qui, che non ci capisco nulla.”
“Che stai facendo?”
“Cerco una macchinetta per il caffè da mettere in ufficio, ché quella che c’è fa schifo. Viene uno sbrodolone, sembra acqua de’ fossi. Ma la devi anche paga’, dé. Almeno con una nuova si beve un caffè ammodo.”
“Mm-mm.”
“Per esempio questa qui, ma non capisco…”
“Cos’è che non ti torna?”
“Dé, ho scelto l’italiano ma è tutto in inglese, e io ne so poco o nulla.”
Sul sito scorrono immagini con scritte Professional like you, Your coffee has never been so smart.
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“Ora te mi devi di’, ma perché non sta fermo un popoino? ‘Un si fa a tempo a legge’ nulla!”
“Clicca quei puntini sotto, è un carousel.”
“Un che?”
“Un carousel, come una giostra, ma in inglese.”
“Mmm… non mi fa di’, sta bona.”
Vanessa torna allo schermo.
“Ora, se voglio capi’ cosa fa, dove devo clicca’? Forse su Scopri di più? Ma che è, devo fa’ l’investigatore?”
Apre la pagina: grandi foto, scritte laterali.
“Top quòliti nao. Mor spècial feturs. Overviu. Ma che è, eh?”
“Ma sono titoli, mamma.”
“Sì, ma perché in inglese? E poi questo scritto qui accanto, piccino picciò, chi lo legge?”
“È testo ispirazionale, ma’. Ti devi fare un’idea.”
“Idea de che? Io voglio sape’ se fa due tazze al minuto e quanto costa, punto.”
“Vedi dove c’è scritto Bean to cup, pigia lì—”
“Bin tu cap? Ma che vor dì? Ma perché non ci possono scrivere in italiano?”
Clicca, poi Office solutions, poi Download datasheet.
Si apre un foglio a colonne fitte di numeri.
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“E ora se’ondo te io mi dovrei mette’ a legge’ tutta questa roba? Ma te c’hai i pioppini nella testa.”

“Ma io veramente—”

“No te, amore, quello che ha fatto questo sito di me— inguardabile. Sai che faccio? Mi faccio un bel caffè con la moka.”

Se anche una portuale livornese rimane incartata nel datasheet, il content design ha fallito.

Non perché Vanessa sia “poco digitale”, ma perché i siti spesso parlano la lingua sbagliata, quella dei designer, dei brand internazionali, dei manuali di UX.

Lingua che suona moderna, certo. Ma tra bean to cup e learn more, l’unica cosa che resta è la confusione.

E quando il linguaggio non ti include, smetti di fidarti.

Inutile cercare di far colpo su Google o su LinkedIn: il cliente è il nostro vero datore di lavoro.

Content Design e traduzioni travestite

Chiamarlo content design è fargli un favore: spesso è un copia e incolla travestito bene.

Pagine nate in inglese, pensate per un pubblico diverso, tradotte in fretta per sembrare internazionali.

Ma un testo non diventa moderno solo perché dice discover invece di “guarda”.

Soprattutto se chi legge non sta cercando una “esperienza”, ma un’informazione chiara, tipo se la macchinetta fa due caffè o dieci.

Si nota sempre più uno scollamento fra chi progetta e chi è destinatario della progettazione.

Il primo passa ore a rifinire testo e aspetto, diventandone un esperto, e dimentica l’effetto che farà al secondo quando, per la prima volta, si troverà davanti al risultato finale.

Le parole chiave arrivano dritte dai manuali d’oltreoceano: learn more, smart solution, your best experience.

In italiano diventano “Scopri di più”, “Soluzione intelligente”, “La tua migliore esperienza”. Ma non dicono di cosa si parla, né perché dovresti fidarti. L’effetto è quello di una traduzione senza destinatario.

Non parla né l’inglese del marketing, né l’italiano di chi compra: parla una lingua di mezzo, perfetta per nessuno.

In inglese learn more funziona perché introduce un approfondimento reale, spesso con un verbo d’azione concreto accanto (compare plans, see details). In italiano, “Scopri di più” è un tappabuchi: non promette nulla, non guida, non informa.

Invece di tradurre, dovremmo riprogettare un sito web, chiedendoci cosa vuole davvero sapere l’utente in quel punto del percorso: vuole confrontare modelli? Capire i costi? Scaricare le specifiche?

Da lì nasce il testo giusto, quello che fa clic non per estetica, ma per chiarezza.

Copywriting per siti web: bisogni diversi in base al Paese

Il content design, come il caffè, cambia sapore da Paese a Paese.

Negli Stati Uniti funziona un linguaggio che ispira: be the change, discover your next experience.

In Italia, invece, funziona quello che rassicura.

Non perché siamo diffidenti per natura (sì che lo siamo), ma perché abbiamo imparato a fidarci solo di chi ci spiega come e perché.

Chi naviga un sito italiano non vuole “un’esperienza immersiva”: vuole capire quanto costa, come funziona e a chi rivolgersi se qualcosa non va.

Vuole vedere un volto, una garanzia, una prova concreta che dietro al brand c’è qualcuno in carne e ossa.

Per questo certe parole-contenitore come solution, innovation o smart non bastano: suonano bene, ma non significano nulla.

Dire “soluzione intelligente per l’ufficio” non è content design: è arredamento testuale.

Dire invece “una macchina da caffè che prepara due tazze in 30 secondi” è servizio, è chiarezza, è rispetto del tempo dell’utente.

Un buon compromesso, sarebbe trovare spazio ad entrambe le “anime”.

E ogni “Scopri di più” messo al posto di “Guarda i modelli” è un’occasione persa per costruire un rapporto.

Progettare un sito per chi legge

La scrittura per il web non deve essere “carina”, deve essere utile.

Non serve solamente un lessico emozionale o premium (scusate), serve una pagina che ti capisca al volo.

Un buon content design parte sempre da una domanda semplice: cosa vuole sapere davvero la persona che è arrivata qui?

Non “che valori ha il brand”, ma che cosa deve fare ora. Chi cerca una macchinetta da caffè vuole sapere:

  • quanto costa;
  • quante tazze prepara;
  • che tipo di capsule usa;
  • se può provarla o restituirla.

E il linguaggio dovrebbe seguirlo passo passo, non precederlo con slogan. Meglio un pulsante che dice “Confronta i modelli” che uno Scopri di più senza destinazione.

Meglio un testo che scrive “Ti aiutiamo a scegliere la macchina giusta per il tuo ufficio” piuttosto che un We care about your coffee journey.

Il content design non è traduzione, è progettazione.

Significa testare parole come si testano pulsanti, capire se il lettore si orienta, se trova quello che cerca, se si fida.

Non per farlo “cliccare”, ma per farlo capire. Perché un testo che si capisce è già, di per sé, un atto di fiducia.

Il caffè di Vanessa: quando il prodotto funziona più della comunicazione

Alla fine Vanessa ha rinunciato al sito e si è fatta un caffè con la moka.

Tre minuti netti, nessun datasheet, nessun learn more.

Una sola interazione, quella con la manopola del gas, e un risultato certo: aroma, calore e soddisfazione.

È ironico, ma anche un po’ tragico: il suo caffè funziona meglio del sito che lo vendeva.

Perché la moka non è solo familiare: è trasparente. Non ti chiede fiducia, se la guadagna facendo il suo mestiere.

Ecco, il content design dovrebbe fare lo stesso. Parlare chiaro, farsi capire, rispettare il tempo di chi legge. Far trovare subito la risposta, non costringere a “scoprire di più”.

Perché un sito ben progettato è come un buon caffè: semplice, forte e capace di svegliare anche chi non voleva imparare niente. 

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Articolo di Luca Lucchesi – www.lucalucchesi.it

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